Paragoni e preferenze

Era da giugno che ci mancavo. Dall’Archivio di Stato, intendo.
Quest’estate è stata troppo torrida per pensare di attuare davvero il proposito di andare la mattina in biblioteca e il pomeriggio in archivio, così alla fine è arrivato settembre.
Ma, forse, era proprio la volontà di andarci che mi mancava. E non perché non mi trovi bene lì, quanto perché non mi andava l’idea di tornare in centro, stanca, per fare altre ore di lavoro. E, soprattutto, di schedare qualcosa che, per quanto mi possa piacere, non finisce mai. Gratis.
Eppure, quando oggi ci sono andata, mi sono vergognata dei miei pensieri. Perché in fondo, checché ne possa dire, io mi affeziono: è stato bello prendere il treno alle 7.58 – stracolmo, così diverso da quello che ho preso in agosto, per andare in biblioteca – farmi a piedi tutta via Tommaso Fiore (pensando che a luglio, lì, ci sarei rimasta secca), entrare in quella struttura così nuova, così bianca, scorrere velocemente con lo sguardo i documenti in esposizione per l’ennesima mostra e salire su, in sala studio. È stato bello sentirsi salutare dai dipendenti dell’archivio, sentirmi chiedere come sto, farmi i complimenti perché sono dimagrita («Stai davvero bene.» mi è stato detto «Ma hai fatto una dieta?») e piegare che no, nessuna dieta, solo tanto movimento in biblioteca, e raccontare cosa faccio, come mi trovo. Mi è sembrato di tornare un po’ a casa, quando mi sono seduta  al PC a schedare e ancora quando sono scesa giù, nella segreteria della scuola, per prendere il catalogo della mostra (sì, finalmente!).
È stato bello perché, nonostante tutto, io in quell’archivio mi trovo bene, sia con i dipendenti che per quello che faccio. Se solo fosse retribuito, mi peserebbe un po’ meno (ma anche se ci fosse un minimo di rimborso spese per i mezzi), ma poi penso che la pratica da qualche parte la dovevo pure iniziare, e scuoto la testa. Poteva andarmi peggio.

E poi sono tornata in centro, in biblioteca. E lì mi sono resa conto che, per quanto l’archivio sia bello e interessante, per quanto mi trovi bene, il mondo delle biblioteche è troppo importante per me. Seduta davanti al faldone, io che ormai sono sempre in giro, mi sembrava di essere legata alla sedia; eppure, anche in biblioteca, quando sto al posto di Lucrezia, sto seduta per ore e ore, anche senza far nulla. Ma è diverso: sono lì, tra i libri: c’è l’utente che viene a chiedermi aiuto con l’OPAC o qualcun altro con la collocazione; c’è il ragazzo che viene a imbucare lo statino o il professore che ha bisogno di un favore; ci sono i libri che tornano da magnetizzare, e quelli che escono, da smagnetizzare; c’è Natale, che arriva sempre a dire cose strane, ci sono le bibliotecarie; ci sono i ragazzi, gli amici e i passanti, con cui scappa la chiacchiera. E ci sono loro, i libri, che mi guardano dagli scaffali e sembrano dirmi “Ma ti sei dimenticata di noi?” E sono all’Università, un ambiente che ha tanti problemi, che sta per collassare su se stesso, ma che ho amato e che amo ancora. E per cui spero possa tornare il sereno.

Quando iniziai il Servizio Civile, mi chiesi se lavorare in una vera biblioteca mi sarebbe piaciuto come mi stava piacendo il lavoro in archivio o se invece la passione per questo settore sarebbe venuta meno.
Beh, per adesso la mia risposta me la sono data.
«Come faremo quando te ne andrai?», mi disse Dina ieri,  alludendo al casino dell’accorpamento di dipartimenti e delle biblioteche. «Come farò quando me ne andrò?» non posso fare a meno di pensare io, ogni giorno.

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